Articolo del 01/10/2015 12:12:42 di Giuli Giulio

Si è sempre fatto così!

Riflessioni sul problematico rapporto tra uomo e albero.

Categoria: Arboricoltura

La diffusa predisposizione a trasformare in umano tutto quello che umano non è, alberi compresi, è stata e continua a essere una delle principali fonti di danno per gli alberi. Cercare similitudini con l’essere umano può funzionare con le stagioni, ma non serve se si parla di alberi.
Carie del legno “curate” come dal dentista, cavità drenate, riempite, sigillate, tagli a filo del tronco, pomate cicatrizzanti, flebo e iniezioni, per citarne alcune, sono tutte pratiche nate e giustificate da questo tipo di approccio.

Dimostrare la reale diversità che esiste tra noi e gli alberi smontando questo falsobuon senso dovrebbe essere cosa relativamente semplice: eppure circa venti anni sono trascorsi dalla pubblicazione dei primi lavori del compianto Alex Shigo, alla pressoché universale accettazione delle sue teorie riguardanti l’albero. Diversi ricercatori hanno poi indagato sui modelli di sviluppo delle varie specie, sulle caratteristiche meccaniche del legno dell’intera pianta, sulle reazioni alla potatura e altro ancora. Per chi vuole ascoltare, sono ormai disponibili numerose informazioni necessarie a comprendere il funzionamento dell’albero e a guidarne la corretta gestione.

Esiste però un’altra importante causa di maltrattamenti e pratiche dannose, su cui è forse ancora più difficile lavorare: la comprensione dei tempi dell’uomo e di quelli dell’albero.

Esistono enormi differenze tra la scala temporale in cui si svolgono le nostre brevi vite e i lunghi e lenti tempi di sviluppo degli alberi.

Inoltre l’uomo ha la memoria corta.

Non è facile convincere il proprietario dell’amata grande quercia che tra le cause  del disseccamento ci sono proprio gli scavi fatti quando 8/10 anni prima decise di ingrandire il garage e di fare la piscina. Risulta ancora più difficile spiegargli che la reazione apparentemente positiva alla mutilazione della chioma fatta poi eseguire era solo illusoria e che invece proprio questo secondo intervento sconsiderato ha rappresentato per l’albero il colpo di grazia.

Si rischia di passare per incompetenti a spiegare che in certi casi non c’è davvero più nulla da fare. Sarebbe tutto più facile se l’albero morisse entro due o tre mesi dal taglio delle radici o della chioma, sarebbe un intervallo di tempo umano e risulterebbe facilmente comprensibile il rapporto causa/effetto, ma così non è.

La nostra vita d’individui è breve non solo se la si paragona a quella dell’albero, perfino la durata del nostro passato, quale unica specie umana superstite, è irrisoria se la si paragona all’immensità del passato degli alberi. Per questo, riferendosi al rapporto tra uomini ed alberi, affermazioni come: “Si è sempre fatto così!” o sono semplicemente prive di senso o, se si cerca di attribuirglielo, si sprofonda in una vertigine di tempo profondo, in un pianeta molto diverso da quello che conosciamo e ben lontano dal conoscerci. Ed è proprio lì che vanno cercate tante spiegazioni.

I primi fossili di alcune delle latifoglie a noi ben note (platano, betulla, aceri, salici, querce) risalgono a 95 milioni di anni fa, ma la storia delle piante e degli alberi è ancora più remota.

Circa 500 milioni di anni fa le prime piante iniziano la colonizzazione delle coste, già dotate del loro corredo di funghi simbionti che assieme alle piante si evolveranno, così come gli insetti e gli altri animali terrestri che verranno in seguito. I problemi da risolvere sulla terraferma, rispetto alla comoda vita in acqua delle loro antenate alghe, sono molti: l’acqua e i sali minerali sono nel suolo, l’anidride carbonica e la luce solare, (vale a dire il cibo) si trovano invece nell’atmosfera e la pianta dovrà vivere in entrambi gli ambienti; dovrà sorreggere le proprie strutture creandosi un sostegno meccanico, dovrà proteggersi dal disseccamento senza impedire la possibilità di scambi gassosi con l’atmosfera, dovrà riuscire a condurre l’acqua dal terreno alla parte aerea.

Tutti questi problemi vengono brillantemente risolti e già 410 milioni di anni fa le piante sono pronte a sfruttare il lungo periodo di clima caldo che permetterà lo sviluppo di estese foreste primitive di piante vascolari, dotate cioè di tessuti specifici per il trasporto e di un tronco: felci arboree, licopodi ed esquiseti, che vanno a sostituire del tutto le primissime piante pioniere.

Tre grandi ondate di vegetazione si sono succedute, mentre la terra continuava a cambiare: i continenti si univano e poi si dividevano nuovamente, gli oceani salivano e si ritiravano, nuove terre emergevano e altre sprofondavano. Della prima ondata, oltre ai grandi giacimenti di carburanti fossili che stiamo sconsideratamente bruciando, resta una discendenza composta da specie quasi tutte di ridotte dimensioni, come gli attuali esquiseti, licopodi e felci.

La seconda ondata, quella delle gimnosperme, ha invece lasciato circa 720 specie attualmente esistenti, dopo più di 200 milioni di anni, la maggior delle quali parte conifere (circa 550), che ricoprono vaste aree del pianeta alle latitudini più elevate e nelle aree montane.

La terza ondata ha originato le piante a fiore, le angiosperme, attualmente stimate in 250.000 diverse specie, arboree, arbustive, sarmentose ed erbacee.

Le comuni latifoglie che popolano il pianeta hanno un’età di circa 100 milioni di anni; molto più vecchie le conifere, alcune sono le stesse che ancora possiamo ammirare, che risalgono a più di 200 milioni di anni fa. Alle più recenti monocotiledoni appartengono invece lepalme che hanno solo 75 milioni di anni.

In questa lunghissima storia l’uomo ancora per molto tempo non compare.

evoluzione delle piante

I più antichi fossili di qualcosa definibile come un arcaico Homo sapiens risalgono ad un periodo che va da 500.000 a 150.000 anni fa. Nella scala di misura che finora abbiamo usato sono solamente di 0,5/0,15 Milioni di anni fa. Quegli uomini erano cacciatori e raccoglitori, naturalmente conoscevano bene le piante, molto meglio di noi; dovevano conoscerle per la sopravvivenza del singolo e dell’intera specie. Sapevano cosa era commestibile, quale fosse il legno migliore per i vari possibili usi, quali piante producevano veleni o farmaci e sfruttavano ciò che semplicemente trovavano e raccoglievano in natura.

L’agricoltura nasce molto dopo: le più antiche testimonianze archeologiche la datano a 15.000 anni fa (vale a dire 0,015 milioni di anni).

Da questo momento l’uomo stabilisce rapporti sempre più stretti con alcune piante, le addomestica, le cura e le coltiva per il proprio beneficio.

Ecco quantificata una prima misura del “sempre” di cui si diceva all’inizio di questa riflessionelimitandoci alla comparsa delle piante vascolari e misurando in milioni di anni, il rapporto è di 400 a 0,015 (o se preferite di 26.666 a 1): gli alberi hanno a che fare con l’uomo da una frazione di tempo infinitesimale rispetto alla loro lunga storia.

Eppure in questo tempo irrisorio l’umanità ha saputo piegare e adattare alle proprie esigenze le caratteristiche di molte piante utilizzate a scopo non solo alimentare, sviluppando e perfezionando tutte quelle pratiche agricole che, assieme alla già citata tendenza a ideare impropri paragoni tra uomo ed albero, costituiscono il cosiddetto “buon senso” che per (relativamente) tanto tempo è stato alla base delle pratiche rivolte alla cura degli alberi ornamentali.

Le nostre città sono piene di tigli, platani, ippocastani artificialmente impalcati come se fossero peschi o meli. Solo che un frutteto deve giustamente produrre con regolarità frutti facili da raccogliere, a costo di accorciare, e di parecchio, la vita degli alberi che ne fanno parte. Un viale di tigli non produce altro che ombra, regolazione del clima, assorbimento di CO2 e di inquinanti e altri vari benefici che si vorrebbe invece conservare per lungo tempo.

A questo punto può sorgere un’obiezione: se gli alberi fanno tranquillamente a meno dell’uomo ha senso continuare a occuparsene? Per rispondere a domande come queste si deve fare un passo indietro ragionando sul fatto che nelle città, nei viali, nei parchi abbiamo a che fare non con alberi naturali ma con alberi addomesticati. E vedremo cosa ciò comporta.

Gli alberi addomesticati tolti dal loro contesto forestale vivono in condizioni totalmente diverse da quelle che si trovano in Natura.

Questi alberi non devono quasi mai combattere la lotta per la luce e per lo spazio con altri individui, come farebbero in foresta,sviluppando così chiome del tutto diverse da quelle che mostrerebbero in una condizione naturale. Chiome espanse e rotondeggianti con branche basali che non si sfrondano naturalmente, ma che possono accrescersi fino ad entrare in concorrenza con il tronco principale.

A questi alberi domestici non è permesso di morire e crollare al suolo come farebbero i loro “fratelli” in natura, liberando spazio e nutrienti.

Gli alberi vecchi sono naturalmente predisposti al crollo: la primogenita radice fittonante, lontana dalla zona esterna dell’albero dove avviene il trasporto degli zuccheri, muore e la conseguente carie basale gradualmente si estende fino a minare la stabilità dell’albero, con la conseguente sua caduta.

Questo non può essere consentito alla maggior parte degli alberi presenti nelle nostre città.

L’albero domestico, per le sue specificità, ha bisogno di cure dal momento del suo impianto sino al suo abbattimento!

Solo rari ed eccezionali esemplari, mai toccati da interventi umani, per un insieme di caratteristiche genetiche e particolarità del sito d’impianto, riescono a raggiungere dimensioni grandiose, in buona salute e solidità.

È il caso ad esempio del Liriodendron tulipifera di Villa Cagnola, vicino a Varese, uno degli alberi più alti di Lombardia (h. 45 m). Questa pianta (chiamata dai nativi pellerossa legno da canoe), introdotta in Europa dagli Stati Uniti, ha un tronco facilmente lavorabile che cresce fino a 15 metri di altezza perfettamente liscio, dritto e privo di rami.

liriodendron tulipifera

Normalmente gli alberi domestici per raggiungere in salute e solidità le dimensioni di questo Liriodendron, oltre che del rispetto dell’apparato radicale e del sito d’impianto, necessitano di diversi interventi di potatura, rimonda dal secco e, spesso, di consolidamenti.

Quest’ultima tipologia di intervento sta avendo un importante sviluppo, grazie all’evoluzione delle nuove tecniche non invasive, dei materiali e soprattutto delle recenti ricerche sulle forze che agiscono sull’albero.

Anche le tecniche di potatura e i mezzi utilizzati influenzano notevolmente la vita degli alberi domestici.

Un tempo, nelle città e nei paesi, gli alberi venivano potati con attrezzi manuali e l’operazione andava ripetuta a intervalli ravvicinati perché non si poteva permettere ai rami da tagliare di svilupparsi più di tanto. Gli alberi venivano perciò allevati a “testa di salice” (“pollard”, in inglese).

Questo tipo di trattamento, pur stravolgendone la struttura, è fisiologicamente del tutto tollerabile per l’albero.

Con l’introduzione delle moderne motoseghe, in grado di recidere in pochi secondi anche rami di grande diametro, si iniziò a “dimenticare” l’assiduità della potatura.

E così si è passati dal “pollard” alla capitozzatura e a tutto quello che ne consegue.

E anche in questo caso il “Si è sempre fatto così!” andrebbe meglio chiarito, visto che esiste un prima e un dopo e sapendo che “testa di salice” e capitozzatura sono due cose molto, molto diverse.

Sappiamo di vivere un equilibrio estremamente fragile, sappiamo di avere aggiunto ai 6 miliardi di esseri umani reali che respirano sul pianeta qualcosa come altri 30 miliardi di uomini virtuali che sono l’equivalente delle nostre emissioni di CO2 da combustione di carburanti fossili.

E ferite di questa portata non possono certo essere guarite salvando questo o quell’albero dal solito parcheggio, centro commerciale o convincendo qualche proprietario a non fare mutilare la chioma delle sue piante.

Possiamo però contribuire all’innesco di un circolo virtuoso che, oltre agli effetti benefici sulla regolazione del clima e sul carico d’inquinanti, potrebbe portare a una più diffusa comprensione sul ruolo primario degli alberial rispetto e al riconoscimento del loro valore e della loro storia fatta di centinaia di migliaia di anni di evoluzione. Una storia di fronte alla quale dovremmo veramente sentirci molto piccoli e vergognarci delle nostre presunzioni.

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