Articolo del 01/10/2015 20:08:59 di Ferrandina Maurizio

L’esperienza di ortogiardinoterapia, orientata al lavoro, della Scuola Agraria del Parco di Monza

Categoria: Ortoterapia

La mia collaborazione con la Scuola Agraria del Parco di Monza è iniziata oltre un decennio fa con compiti strettamente legati alla manutenzione del verde, ai quali ho aggiunto, gradualmente nel tempo, la mia esperienza maturata in ambito riabilitativo, che mi ha consentito di portare a Monza alcune persone da me seguite nelle varie strutture sanitarie dove opero, per permettere loro di proseguire il cammino intrapreso, orientandolo ancor più alla realtà.

E così, poco per volta, il ‘gruppo’ si è formato ed ha preso pian piano consistenza, importanza e incisione nel lavoro che la Scuola Agraria del Parco di Monza deve affrontare quotidianamente nell’ambito dell’Azienda Agraria (e non solo).

Non sono stati certo dieci anni tutti in salita, ma hanno visto momenti di difficoltà più o meno profonda, più o meno intuibile dall’esterno, anche perché il nostro è un gruppo riabilitativo che tecnicamente, per chi deve e ha ancora voglia di collocarlo e incasellarlo, viene definito ‘aperto’ e, si sa, con le aperture le difficoltà aumentano esponenzialmente; al contempo trovo, però, che ogni persona che si aggiunge va a incidere in modo importante sul clima generale e, non di poco conto, tende sempre più a creare, apportando le proprie caratteristiche, quel microcosmo  molto simile, in ultima analisi, al macrocosmo esistente fuori, fuori da noi, fuori dal tirocinio, fuori dalla Scuola Agraria del Parco di Monza.

Per chi tecnico non è, gruppo aperto significa che chi vi partecipa può entrare o terminare il percorso intrapreso in qualsiasi momento storico senza che ciò coincida con la fine dello stesso, elemento di realtà importante, questo, poiché sottolinea l’importanza del singolo ma non la sua determinazione sul tutto che è più forte del singolo stesso.

Caratteristica, a parer mio, importante, è che per una serie di coincidenze e qualche scelta di rotta, il gruppo può essere collocato esattamente a metà tra ciò che avviene in una struttura sanitaria protetta – tipo CRA, CPA, CPS, CD- e in un luogo di lavoro esterno non protetto, andando, in questo modo, a colmare ciò che nella nostra realtà è di difficile realizzazione per un’infinità di motivazioni, non ultimo il fattore economico; la Scuola, infatti, offre la possibilità, i luoghi, gli attrezzi, il personale per far sì che ci sia continuità in questo progetto, ricevendo in cambio una serie di benefici, ma non di carattere economico; il compenso ai partecipanti viene erogato direttamente dalla struttura sanitaria inviante, che provvede mensilmente, in genere, al compito.

Quel meraviglioso modello di Ciompi** riguardante l’Asse Lavoro (e Casa), al quale, in teoria, bisognerebbe fare riferimento per graduare la riabilitazione al meglio senza troppi scossoni o salti eccessivi o voli pindarici senza fondamento, rimane, in quel poco che vedo tutti i giorni e in varie realtà lombarde, molto teorico, appunto, e poco applicato.

Il merito maggiore del lavoro presso la Scuola Agraria del Parco di Monza probabilmente sta proprio in questo ‘ponte’ tra dentro e fuori, tra assistenza e sperimentazione, tra dipendenza e libertà: con tutte le difficoltà quotidiane che questa parola porta con sé.

Nel tempo, il ‘gruppo’ si è fatto conoscere da varie strutture: oltre alle ASL con i vari servizi citati prima, invii sono arrivati dal carcere minorile, dall’Associazione Ciechi, dall’Associazione Lotta Contro l’Emarginazione e altri, stemperando i servizi di salute mentale, che, ad oggi, sono prevalenti.

L’inizio di un percorso ha, generalmente, origine con una telefonata: l’operatore che ha in carico la persona – educatore, assistente sociale, più raramente un infermiere, quasi mai lo psicologo e il medico – mi contatta, fissiamo un primo incontro conoscitivo durante il quale vengo informato di ciò che potrebbe essere importante sapere per un confronto col lavoro in un gruppo; a volte, ma non sempre, viene aggiunta un’anamnesi remota e/o recente, che prendo sempre un po’ con le pinze, poiché ritengo che ciò che vedo io in un ambito operativo non sia la stessa cosa che emerge nel colloquio settimanale, quindicinale o mensile, fatto con il medico o nella quotidianità vissuta in una struttura sanitaria e questo non per una schizofrenia dell’utente ma proprio perché ambiti, situazioni e dinamiche differenti soffocano o esaltano deficit o valori, capacità o handicap.

Il passo successivo riguarda l’incontro con il futuro tirocinante ed è anche la mia personale verifica al lavoro dell’equipe inviante. Non sempre, infatti, gli invii sono coincidenti con il giusto momento del tirocinante e con la sua reale profonda voglia di iniziare un percorso riabilitativo: questo io riesco a decifrarlo meglio di altre figure, non per bravura, ma perché utilizzo altri parametri valutativi che non sono quelli più consueti legati al solo verbale.

E’ pur vero che si tratta, anche per me, di un colloquio ma traspare netta la motivazione, le aspettative, la voglia di iniziare un nuovo percorso, la creazione di problemi, l’ansia, l’eccessiva verbosità, l’aderenza al progetto che il potenziale tirocinante estrinseca dialogando.

Sono dati, quelli che emergono, non incasellabili in qualche griglia valutativa, non schematizzabili, sempre mutevoli, ricchi di variabili, anzi, direi che sono una variabile unica e che l’esperienza e un certo grado di sensibilità permette di decodificare e riconoscere.

Capita, infatti, di incappare in invii senza futuro, frutto di elucubrazione teoriche scollegate dalla realtà, a volte dettati dal voler provare ancora un’ultima strada o, più concretamente, per sfruttare la possibilità economica che altrimenti rimarrebbe inutilizzata, o per contrastare un senso di frustrazione che prende chi, a volte, si deve arrendere all’evidenza dell’impotenza davanti alla malattia o al limite.

Ipotizzando l’esito positivo del colloquio, trascorrono quindici giorni necessari alla burocrazia per attivare le varie assicurazioni personali e per far sì che i vari ripensamenti prendano piede o siano spazzati via. Chi inizia ha a che fare con tempi, gestione della cura del sé, responsabilità personale, relazioni a vari livelli – sia all’interno che all’esterno del ‘gruppo’ -, tenuta, affidabilità, capacità, motivazione; si deve confrontare con potenzialità cognitive, mnemoniche, logiche, soluzione dei problemi, gestione dello spazio, della propria fisicità e del movimento, con il rispetto delle norme, dei compagni, dell’ambiente; deve confrontarsi con la realtà, l’affermazione di sé, il mantenimento e l’acquisizione di nuove competenze spendibili sul mercato del lavoro, e con la comprensione delle proprie capacità / limiti.

Si lavora sempre, sin dall’inizio, utilizzando tutti gli attrezzi indispensabili all’attività professionale del giardiniere, arrivando sino all’uso delle macchine portate a motore, del trattore con rimorchio e della motosega: ritengo, infatti, che chi abbia voglia di riabilitare debba farlo seriamente e questo, nel nostro settore, significa anche usare sempre tutti gli attrezzi adatti, assumendosi la responsabilità del rischio.

Certo il mio concedere / proporre l’uso dei macchinari non avviene a casaccio, ma segue un percorso evolutivo all’interno di ogni singolo programma, di ogni singola relazione instaurata e del momento che ogni persona sta attraversando.

I compiti quotidiani vengono scelti liberamente da ciascuno e o da me distribuiti seguendo vari parametri (motivazione, competenze, sperimentazione) così come la scelta dei gruppetti di lavoro che devono funzionare e dove i vari partecipanti devono essere capaci di collaborare tra loro per raggiunger il risultato operativo.

Mantengo con i vari operatori invianti un contatto costante che mi / ci permette di monitorare l’andamento del tirocinio e ricalibrare, eventualmente, gli obiettivi; questa è la norma.

Poi capitano anche i ‘parcheggi’, ma questa è un’altra storia, più sociale che riabilitativa.

** Il modello Ciompi ha come obiettivo il reinserimento lavorativo della persona partendo dalla situazione estrema e opposta dell’assenza di occupazione, utilizzando varie situazioni e strutture di differente grado di protezione, fino al lavoro non protetto.

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