Articolo del 02/10/2015 19:07:59 di Ferrandina Maurizio

Energie e difficoltà in un normale iter riabilitativo

Categoria: Ortoterapia

Capita che, nel mio lavoro riabilitativo, io e l’equipe sanitaria, rappresentata per l’occasione dell’educatore,l’assistente sociale o, più raramente, da qualche altro operatore di riferimento, mettiamo delle energie, investiamo del tempo, cerchiamo, ancora una volta, di credere nelle risorse dell’uomo, creiamo insieme un progetto terapeutico unendo esperienza, saperi, punti di vista, competenze diverse derivate sì da studi ma, anche e soprattutto, da tutto ciò che nasce dalla gestione quotidiana dei fatti, cerchiamo di superare il limite semplice e banale, imposto da una scritta su una cartella clinica definita come “diagnosi” – intendiamo; non sono contro la definizione della malattia, della fragilità , della prevalenza sintomatica in un individuo: questo serve anche alla farmacologia per operare nel modo più adeguato.
Ciò che contrasto è l’abuso che si tende a fare utilizzando tale stigma, la facilità all’indelebilità che tale sentenza definitiva può imprimere nell’animo, nel cuore e sulla pelle di chi, sfortunatamente, la riceve passandogli un limite che è per sempre, contro il quale ben pochi lottano partendo, purtroppo, dalla stessa persona coinvolta – lavoriamo su binari che, per forza, devono essere paralleli per dirigerci verso un obiettivo comune e condiviso – e ciò, per come siamo fatti noi riabilitatori è un bello sforzo!
Non si pensi che le maggiori energie vengano impiegate nella gestione del tirocinante.
Da quando frequento equipe di lavoro in ambito sanitario-riabilitativo i maggiori sforzi degli operatori sono impegnati nella gestione di loro stessi in relazione con i colleghi, mai con l’utenza (dobbiamo tendere alla neutralità per poter vedere i fatti, gli eventi, le relazioni nei loro punti essenziali senza inquinare o modificare ciò che sta avvenendo per far sì che i nostri eventuali interventi abbiamo un senso, forse un peso).  Tutto ciò è solo l’introduzione, senza prendere in considerazione la totalità delle premesse che devono essere soddisfatte perché ci si incontri su una bozza di progetto riabilitativo.

Capita, poi, di passare al momento del primo incontro con il potenziale futuro tirocinante presso la Scuola Agraria del Parco di Monza. È un momento di grande pathos, grande emozione, grande attesa, dove metto in gioco le mie capacità percettive per cercare di capire più cose, in quel poco tempo a disposizione, cose che vadano al di là delle parole e che entrino nella vita reale della persona che mi trovo di fronte; devo anche capire se quello è il momento giusto per iniziare un tirocinio – il linguaggio verbale, spesso e anche in questo caso, mente e a volte l’equipe è tratta in inganno dalle parole – per non essere, se non il mandante, l’esecutore di un progetto riabilitativo fallimentare sin dall’inizio.
Devo cercare di capire se c’è una chiave per un contatto, per un intesa che soddisfi le aspettative di chi inizia un percorso, che rafforzi le motivazioni, che permetta di pensare alla parola ‘futuro’ senza doverla obbligatoriamente legare a vita a qualche servizio usandolo come una stampella.

Racconto e spiego chi siamo, che cosa facciamo, i punti di forza dell’intraprendere un tirocinio e investire del tempo presso di noi ma anche i punti deboli, le carenze e questo per non alimentare un inganno o un fraintendimento che farebbe perdere tempo a tutti ma, soprattutto, a chi si propone (spesso in balia sì dei propri tempi dilatati legati alla patologia ma non meno agli eguali o a volte addirittura maggiori tempi della burocrazia, dell’equipe, degli operatori, delle decisioni condivise, del colloquio con il medico e di quello con lo psicologo)
Non sono lì per sedurre, non devo essere convincente o accattivante, non sono un commerciante che deve a tutti i costi vendere la propria merce spacciandola per quella migliore sulla piazza, tento di trasmettere le tante opportunità che uno spazio protetto come il nostro oggettivamente offre lasciandosi andare alla sperimentazione, mettendo alla prova i propri tempi, arricchendo le proprie competenze, giocando il proprio ruolo all’interno di un grande gruppo di lavoro a contatto non solo con se stesso ma con tante altre realtà che gravitano intorno alla scuola e con le quali collaboriamo e ci confrontiamo quotidianamente: volontari, dipendenti, docenti, studenti-.

Cerco di far nascere, da subito, in chi ho di fronte la voglia di pensare a riscattare la propria vita non attraverso l’assistenzialismo ad oltranza, neppure offrendo una protezione continua e a tappeto che, col tempo, rende inermi, dipendenti, incapaci di lottare con le proprie forze, bravi nell’adagiarsi poichè tanto, poi, ci pensa qualcun altro a risolvere la situazione…. Un atteggiamento custodialistico, purtroppo, ritrovo molto spesso radicato tra gli operatori impegnati nelle varie strutture ove collaboro ed è quanto di più malato vi possa essere tra  chi dovrebbe, all’opposto, stimolare all’autonomia; certo fa risparmiare energia e impegna molto, molto meno gli operatori.

Tendo a far passare concetti quali ‘accompagnare’ e non ‘sostituirmi a’ – la differenza sta nella responsabilità che pone l’operatore nel suo lavoro facendogli assumere una valenza, rispettivamente, terapeutica o d’animazione- , ‘preparare’ e non ‘proteggere’, se non per situazioni base per le quali viene giustificata la presenza in questo contesto, ‘responsabilizzarsi’ e non ‘essere controllati’, ‘risolvere‘ e non ‘delegare’; ognuno dà ciò che può poichè ciò che può dare è preteso.

La macchina, a questo punto, è ampiamente avviata, il primo colloquio/incontro procede per il suo percorso, sono state impiegate già abbastanza risorse ed energie anche se siamo solo alla fase conoscitiva nella quale ognuno sonda le compatibilità con le altre figure: tutto il percorso si basa sulla relazione ed è, quindi, improbabile la riuscita se si percepiscono limiti invalicabili.

Capita, ancora, e questa è una faccenda tutta mia, che, trascorsi i quindici giorni necessari per attivare le convenzioni tra enti e l’assicurazione contro gli infortuni, il tirocinio abbia finalmente inizio e io debba trovare un compromesso continuo nei confronti di ogni partecipante. Da un lato, infatti, ho il contributo elargito sotto forma di borsa lavoro dalle varie ASL che si aggira intorno alle 120/200 € al mese -che corrispondono a circa 3/4 € all’ora-, dall’altro ho le esigenze del progetto terapeutico da portare avanti con i suoi obiettivi da salvaguardare, da un ultimo punto di vista ho l’articolato lavoro della Scuola da tenere sotto controllo.

Non è esaustivo risolvere la questione ponendola sotto l’ottica “i tirocinanti sono qui per imparare e quindi cosa pretendono?” poichè alcuni posseggono anni di esperienze di lavoro, nel loro passato, spesso non nel settore del verde, questo è vero, ma che lasciano, ugualmente, una capacità inconfondibile nell’approcciarsi ad esso; poi le competenze, con il tempo, si acquisiscono e si diventa capaci e funzionali.

Risulta pure una contraddizione parlare di orientamento alla realtà quando poi l’obolo non copre che le spese di spostamento con i mezzi pubblici o l’auto…e in più c’è da lavorare! Non vorrei entrare nel merito di alcune storie personali, ma non tutti vivono economicamente tutelati in famiglia –e  comunque, anche questo, non è l’obiettivo che si pone un percorso riabilitativo esaustivo!- e che per alcuni tale obolo fa la differenza, qualitativa, del mese. Le riduzioni dei finanziamenti accorsi negli ultimi anni in conseguenza dei tagli alla spesa pubblica si stanno riflettendo, in modo evidente, su queste situazioni di vita quotidiana rendendo sempre più difficili i concetti che stanno dietro tali percorsi.

C’è chi ha tanto altro dalla vita ma c’è anche chi avrebbe solo un semplice tirocinio presso la Scuola Agraria del Parco di Monza… e non è che tutto ciò proprio capita!

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